Nella lunga lista della spesa che questo governo si appresta a stilare per quella che dovrebbe essere una plausibile ripresa economica, alcune categorie riceveranno, anche giustamente, un’attenzione particolare e mi riferisco ai lavoratori anziani che rischiano di perdere sia il lavoro che il diritto alla pensione, agli imprenditori che hanno visto il loro reddito ridursi considerevolmente producendo danni anche a chi sono impiegati nelle loro imprese, alle lavoratrici che a causa dell’emergenza sanitaria hanno dovuto abbandonare il lavoro per i più impellenti doveri familiari. Tuttavia non andrebbe dimenticata una categoria molto particolare, essenziale, non meno importante delle precedenti che sono i “giovani”, che sono stati sempre trascurati, se non penalizzati, e non solo in questa fase di emergenza sanitaria. Nell’ultima grande recessione del 2009-2013 se il tasso di disoccupazione era del 13%, quella giovanile era del 40%. Sono diverse le dimensioni che raccontano di questo fallimento, in primis la qualità del sistema educativo, segue la capacità di questo Paese di attrarre talenti se non addirittura di farseli sfuggire visto che non sono pochi quelli che vedono nell’emigrazione l’unica possibilità di realizzarsi. Non da meno la precaria libertà economica, le non pari opportunità, l’incertezza delle regole e il non trascurabile livello di corruzione che sono alla base del basso livello di meritocrazia che abita oramai in tutti i livelli istituzionali ed applicativi del nostro Paese. Tanto che è stato approntato un Forum della “Meritocrazia” dalla Università Cattolica di Milano e la cui ricerca e conclusione non è molto lusinghiera ma non sorprendente: ancora oggi nella promozione del merito l’Italia è all’ultimo posto fra i Paesi europei con un sistema educativo che non eccelle più come in passato. Ed il messaggio è che l’Italia non è un Paese solo fermo, anche in virtù del Leviatano burocratico-fiscale, ma che tende a frenare la sua componente più dinamica che, oltre il danno, subirà in futuro anche la beffa di dover sopportare a livello contributivo il peso di un sistema pensionistico squilibrato oltre che ripagare il debito dei prestiti europei, con a monte una spesa non sufficiente a livello di istruzione. Bisogna però a questo punto qualche nota di precisazione e riflessione per poter alleggerire questo fardello oltre che sociale anche etico che incombe sulle nuove generazioni e che per la prima volta nella storia occidentale non hanno un futuro più favorevole rispetto alle precedenti e poter approntare una qualche idea riformatrice anche se non risolutrice pienamente il problema. Certo il sistema educativo è stato fortemente penalizzato dalla bassa percentuale di spesa dedicata rispetto al Pil e nel contempo si sono accentuate quelle disuguaglianze dei vari sistemi scolastico-universitari fra le Regioni con atenei più prestigiosi che tengono botta ed altri sempre più decadenti. Sarà forse che troppi atenei sono sorti solo in virtù di moltiplicare cattedre, sarà che la bassa natalità ha ridotto il numero degli iscritti, ma è anche vero che fra i giovani è alto il numero di chi non conclude il corso di studi o di quelli che non lo iniziano nemmeno. Tuttavia ancora oggi, leccandosi le ferite e con andatura barcollante il nostro sistema educativo non è proprio da buttare visto che si può essere ancora orgogliosi della intelligenza e creatività nostrane come scandisce Alessio Figalli premiato all’estero per i suoi studi in matematica. Alla domanda di un giornalista del “Messaggero” se ci fosse qualcosa di italiano in questo premio risponde “Sì la mia formazione è italiana ed aver vinto dimostra che il nostro Paese riesce a formare” ed il fatto che sia fuggito dall’Italia esalta solo il nostro spirito “cosmopolita”. Dovremmo in tal senso anteporre ed arricchire il background e le potenzialità di una struttura formativa che possa accogliere con maggiori numeri ed opportunità educative, come i link con prestigiose università estere, chi sceglie una via ed abbandonare quel campanilismo provinciale che ti crea una struttura più vicina ma più fatiscente solo per un consenso elettorale a discapito di un poco concorrenziale risultato finale tanto il “pezzo di carta” ce l’hai. Questo sistema non potrà mai funzionare specie in una società oggi più aperta che mai. I nodi vengono subito al pettine. Abbiamo più bisogno di “maestri” che di “docenti” con sempre più rare “Lectio magistralis”! Carolina Brandi ricercatrice Irpps-CNR, l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, una delle maggiori esperte sull’emigrazione di cervelli, il “brain drain”, non usa mezzi termini “La fuga dei cervelli c’è ed è dovuta all’ “overeducation” ossia al sottoutilizzo delle competenze acquisite ricoprendo mansioni più elementari e non all’altezza, e che nel tempo rendono le conoscenze acquisite sempre più obsolete, un segnale allarmante dell’arretratezza del nostro sistema produttivo che pone scarsa attenzione delle istituzioni verso la ricerca ed allora se ne vanno…Il dramma è che l’Italia non saprebbe come usarli…mentre i non molti ricercatori stranieri che vengono a lavorare in Italia tornano quasi sempre in patria dopo qualche tempo, gli scienziati italiani che vanno all’estero in grande maggioranza non tornano più”. Ed è un grosso danno per la società che spende per la formazione di personale altamente qualificato sia il fatto della sottoutilizzazione delle competenze acquisite che la migrazione verso nazioni per le quali la richiesta di personale di ricerca è superiore a quanto il proprio sistema accademico riesce a produrre. E continua che per ridurre il “brain waste” “Le opzioni possibili sono solo due: o si interviene sul sistema produttivo per riconvertirlo verso produzioni a maggior tasso di innovazione o si riduce l’offerta formativa disponibile. La prima opzione porterebbe il Paese verso un’economia più moderna e stabile, meno esposta alla concorrenza insostenibile da parte di nazioni nelle quali il costo della vita, e quindi il costo del lavoro, è enormemente più basso di quello in Italia. La seconda opzione porterebbe invece il Paese verso un crescente degrado culturale ed economico. Purtroppo i continui tagli al personale ed alle risorse economiche delle università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, il calo degli iscritti all’università, l’abbandono da parte delle imprese italiane di molti settori tecnologicamente più avanzati nei quali erano riusciti ad ottenere significativi successi negli anni ’60-’70 fano temere che l’Italia stia scegliendo irresponsabilmente la strada peggiore”. Ma siamo tanto sicuri che la meritocrazia sia la panacea per una più brillante ripresa economica e che premiare il merito sia una grande conquista democratica e liberale? O che nasconda fra le righe solo un progetto di mercato paventando una veste di maggiore uguaglianza ed opportunità? Vittorio Pelligra, professore di politica economica all’Università di Cagliari nella sua rubrica “Mind the economy” sul “Sole 24 Ore” ha sollevato un interessante dibattito sulla “meritocrazia”. Dice infatti che l’idea di “merito” è solo apparentemente semplice ma in realtà è un concetto complesso sia dal punto di vista filosofico che dell’implementazione operativa. Perché l’idea è assurta a sinistra come una sorta di antidoto alle disuguaglianze. Il mito della meritocrazia assurto come principio di una società giusta è in realtà nient’altro che la legittimazione morale della disuguaglianza. A leggere queste sue affermazioni d’acchito mi sembravano fuorvianti secondo una logica precostituita ma ad onor del vero le sue deduzioni non sono poi così fuori luogo. La retorica del merito secondo cui talento e impegno possono farci raggiungere qualsiasi traguardo entra nel discorso pubblico nei primi anni ’80 con Ronald Reagan negli Usa e Tony Blair in Europa ma prosegue la sua opera di persuasione fino al “you can make it if you try” di Obama o da noi Matteo Renzi con la ministra Bellanova che afferma “chi ce l’ha fatta è solo per merito ed il merito è di sinistra…ed il merito, che si tratti della selezione delle classi dirigenti, di concorsi, di pubblica amministrazione, il merito è il nostro unico parametro di misura”. Ma cosa si intende per merito? Aver preso la laurea? Aver superato un concorso? Essere diventato chirurgo, notaio, deputato? Essere ricco bello e di successo? Un bel principio applicato decisamente male! Perché se applichiamo acriticamente la retorica della meritocrazia che ci porta a premiare chi ce l’ha fatta implica allo stesso tempo punire chi non ce l’ha fatta. Perché vuol dire che non ci hai provato fino in fondo e la colpa del fallimento è solo tua. Ma negli ultimi anni la dimensione ideologica della meritocrazia inizia a venire a galla ed è soggetta ad efficaci esercizi di decostruzione come quello dell’economista Robert Frank “Success and luck. Good fortune and the mith of meritocracy”, del giurista di Yale Daniel Markovits “The Meritocracy Trap: How America’s Foundational Mith Feeds inequality, Dismantles the Middle, Class, and Devours the Elite”, del filosofo di Harward Michael Sandel “The Tyranny of Merit: What’s Become of the Common Good”. Tutti sono d’accordo nell’affermare che vi sono due assunzioni verosimili ma “false”: la prima è che i meriti individuali sono evidenti e facili da cogliere e ricompensare; la seconda che il mercato, più in generale la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare il merito. Infatti tutto quello che è “impegno” è fortissimamente determinato da elementi del tutto estranei e fortuiti come l’essere nato in una certa famiglia, in un certo Paese, in un certo momento storico. Le condizioni per poter ottenere risultati ottimali da un percorso scolastico si formano molto prima dell’accesso a quel percorso. Le componenti non cognitive del capitale umano (perseveranza, autocontrollo) si formano ben prima dei 6 anni e dipendono dall’agiatezza culturale della famiglia di provenienza. Quindi non possiamo punire o stigmatizzare socialmente una persona che non ce l’ha fatta solo perché meno “fortunata” di altre. Lebron James un indubbio campione di basket, un grande talento sfruttato al meglio. Ma cosa sarebbe successo se Lebron fosse nato in una società nella quale il basket non interessa a nessuno e quindi non spenderebbe un centesimo per assistere alle sue performance ludiche? E quanti Lebron talentuosi e determinati sono nati nel posto sbagliato e nel momento sbagliato? Negli USA, nonostante una generosa politica delle borse di studio, gli iscritti nelle università della “Ivy League” (titolo che accomuna le otto più prestigiose ed elitarie università degli Stati Uniti) sono più quelli che arrivano da famiglie con reddito nel top dell’ 1% di quelli che arrivano da famiglie con reddito più basso. Consegue lo scandalo delle ammissioni truccate a favore dei figli di ricchi donatori e benefattori. In una parola la riproposizione di un sistema basato sull’aristocrazia: l’ ”aristocrazia di nascita” di un tempo si è oggi trasformata in “aristocrazia del talento”. Ed il sistema educativo rischia di acuire questa tendenza, di trasformarsi in una “sorting machine”, un distributore di opportunità al quale tutti non hanno uguale accesso. Così nell’ambito della scuola e dell’Università la “Tirannia della Meritocrazia” se da una parte demoralizza, colpevolizzandoli, chi non riesce ad avere i migliori risultati, allo stesso tempo tende a snaturare se non distruggere la missione educativa della scuola stessa, trasformandola in una macchina etichettatrice per prodotti di buona, media e scarsa qualità, in un meccanismo di rigenerazione delle disuguaglianze. Il problema tuttavia non nasce quando desideriamo che la persona più capace diventi il neurochirurgo che vorremmo ci operasse nel caso ne avessimo bisogno, ma quando l’ideologia meritocratica rende più probabile, per il figlio di quel chirurgo, diventare quello stesso neurochirurgo di fama, i cosiddetti “figli d’arte” e quando questo rende difficile ai figli di altri, indipendentemente dalle loro capacità di provare a diventare lo stesso chirurgo di successo. E passiamo al rapporto fra mercato e ideologia del merito. Il mercato spesso non premia il merito in maniera “automatica” come è nel pensiero liberale tanto che Von Hayek e lo stesso Hume erano perfettamente coscienti che il mercato non premia il merito, ma una serie di circostanze al difuori della dimensione individuale. Puoi avere tutto il talento che vuoi ma devi fare i conti fra domanda ed offerta del mercato: i prezzi del mercato non sono legati a scelte dei singoli ma sono frutto di interazione di un numero enorme di fattori. Una società di mercato può funzionare lo stesso senza la meritocrazia così intesa. Ed è proprio il mercato che ha prodotto in gran copia quelli che David Graeber chiama “bullshit jobs” ossia il proliferare di lavori senza senso o addirittura socialmente dannosi come gli incarichi astrusi nella pubblica amministrazione al solo scopo di moltiplicare le prebende, e che tu produca bombe o assista gli anziani fa lo stesso se il reddito è simile. Come rimedio all’ideologia della meritocrazia si dovrebbe rivalutare la “dignità del lavoro”, ossia trasformare una società di “cittadini-consumatori” in una di “cittadini-produttori”. Dalla tutela della “capacità di consumare” alla tutela della “capacità di produrre”. Se il lavoro fosse solo un mezzo per procurarsi un reddito allora quando il lavoro non è più necessario basta che ti fornisca il reddito che avevi prima. Ma non è così perché il lavoro ha un valore in sé, è il partecipare alla creazione che umanizza il mondo e rende lavoratori e lavoratrici ancor più uomini e donne. Eliminare questo senso di partecipazione col proprio lavoro significa essere espropriati del senso della propria esistenza e non c’è sussidio che tenga. Lo sanno bene Grillo e Bergoglio che anelano fortemente al “reddito universale” per tutti in una società sempre meno rappresentata da capitale umano lavoratore e che non avrebbe più occasione di creare e generare. Mi vengono i brividi! |